Terza puntata della rubrica “Dual & Post Career”.
Dopo Riccardo Pittis e Flavio Portaluppi, il protagonista è Davide Moretti.
Davide – play-guardia classe 1998 e figlio d’arte di Paolo Moretti – fin da giovanissimo ha lasciato una traccia nella pallacanestro. Infatti, a Genova nel 2013, quando aveva 15 anni, ha vinto il Trofeo delle Regioni con la Toscana, dopo un tempo supplementare, segnando 37 punti in finale. Nel 2014, giocando con la Stella Azzurra Roma, è stato inserito nel miglior quintetto del Campionato Italiano Under 17, arrivando al quarto posto. Nel 2016, a Pistoia, l’esordio in Serie A a 16 anni sotto la guida di papà Paolo, mentre con le giovanili ha conquistato lo Scudetto Under 17 (ancora inserito nel miglior quintetto) e il secondo posto nelle Finali Nazionali Under 19. Con l’Italia Under 18, invece, ha vinto la Medaglia di Bronzo sia al torneo “Albert Schweitzer” (sorta di campionato del mondo della categoria) sia al Campionato Europeo. Dopo le giovanili, dal 2015 al 2017 ha disputato due stagioni in A2 da under a Treviso, voluto da coach Stefano Pillastrini, disputando in entrambi i casi i playoff e venendo nominato, nel secondo campionato, miglior Under 22 della Serie A2.
Nella stagione 2017/2018, la scelta di andare in NCAA scegliendo il programma dei Red Raiders di Texas Tech, guidati da coach Chris Beard. A Lubbock, in Texas, Davide ha giocato una discreta prima stagione da matricola come cambio degli esterni, per poi consacrarsi nel campionato 2018/2019 appena concluso. Infatti, se nella prima stagione ha contribuito da comprimario allo storico risultato di portare il suo college (fondato nel 1923) fra i primi 8 degli Stati Uniti d’America sfiorando la Final Four, quest’anno ha giocato da play titolare e, soprattutto, da protagonista. “Moro” ha infatti scritto la storia guidando Texas Tech prima alla vittoria della tostissima BIG XII Conference (si tratta della prima volta nella storia per il college) e poi alla Final Four di Minneapolis, perdendo il titolo soltanto in finale e dopo un overtime, davanti a 72.000 spettatori.
Oltre al campo, le soddisfazioni sono arrivate anche negli studi, visto che la NCAA gli ha assegnato il premio “Elite 90 Award”, essendo l’atleta con il più alto standard accademico fra tutti quelli che praticano basket a livello universitario negli Stati Uniti d’America, in college di Division I. Davide Moretti, su un massimo di 4, ha ottenuto 3,71, studiando Scienze Umane.
Dunque una stagione eccezionale per il ragazzo che negli USA hanno soprannominato “Il Maestro” e che è stato il primo italiano in 81 edizioni ad arrivare da protagonista alla Final Four. I numeri a fine stagione parlano di 18 partite giocate nelle gare di BIG XII, sempre partendo in quintetto, a 33,3 minuti di media e tirando da 3 punti con il 53,5% (46/86), ottenendo il primo posto nella speciale classifica dei tiratori da oltre l’arco virile. Ai tiri liberi, percorso quasi netto con 54/58 e il 93,1% (ancora prima posizione), mentre per punti segnati di media (13,2) è risultato il decimo della Conference. Alle 18 partite della BIG XII vanno poi aggiunte 13 partite di prestagione e 6 giocate nella “March Madness”, con valori sostanzialmente in linea. In totale, 37 partite giocate a 31,6 minuti di media e 11,6 punti segnati, con il 92,2% ai tiri liberi (primo in tutti gli Stati Uniti d’America) e il 46,8% da 3 punti (72/154).
Insomma: a 21 anni, Davide ha già un palmares nutrito e un discreto libro di ricordi da aprire, oltre ad essere stato il primo italiano della storia ad arrivare così in alto nella NCAA.
Essendo un modello di riferimento per i giovani che giocano e studiano, la GIBA ha pensato di intervistarlo. Questa è la nostra chiacchierata con Davide Moretti, che ringraziamo della disponibilità.
Davide, esistono delle difficoltà per conciliare, ad alto livello, studio e pallacanestro?
«Io, finora, qui non ho avuto grandi difficoltà, perché il sistema negli Stati Uniti è molto diverso da quello che abbiamo in Italia. Qui tutti gli sport, non solo il basket, vanno a braccetto con la scuola. Mi spiego con un aneddoto, per comunicarvi quanto è forte il legame fra la scuola dal punto di vista sportivo e la scuola dal punto di vista educativo: quando abbiamo giocato la Finale NCAA, lunedì 8 aprile 2019, l’università è stata chiusa, perché al di là di vittoria o sconfitta, volevano festeggiarci. In Italia, invece, la scuola è una cosa e lo sport è un’altra cosa. Altro esempio: nell’ultimo mese, fra March Madness e altro, ho praticamente girato l’America fra allenamenti e partite, restando indietro giocoforza con studi ed esami. Bene: non c’è stato un professore, fra quelli ai quali ho scritto una email, che non mi abbia accordato più tempo per rimettermi in pari e recuperare il tempo perso. Hanno capito e non solo: si sono congratulati per quanto stavamo facendo per il college. La bontà del sistema americano mi ha persino fatto ricredere, perché al termine delle scuole superiori, in Italia, ero sicuro che non avrei continuato gli studi, proprio per l’impossibilità di conciliare questo impegno con la pratica del basket. Invece, qui scuola e sport vanno davvero a braccetto e questo sistema mi ha fatto diventare piacevole studiare».
Cosa serve per arrivare in alto, sia nello studio sia nel gioco?
«Servono tanta testa e tanta forza di volontà, proprio per conciliare sport e scuola e per non mollare in nessuno dei due ambiti. Appena sono arrivato non parlavo bene la lingua, quindi ho fatto fatica perché i professori, giustamente, non potevano certo perdere tempo con me. Quindi, non riuscendo a seguire al meglio le lezioni mi sono trovato con un sacco di lavoro sulle spalle e ho colmato le mie lacune con un impegno supplementare, giorno dopo giorno, restando sempre sul pezzo. Una volta migliorata la comprensione della lingua, mi sono messo sotto per seguire in modo sempre più preciso in aula. Dal punto di vista sportivo, il primo anno è stato duro, perché non giocavo molto e questo mi ha fatto andare “giù di testa”. Insomma: ero deluso e triste, ma mi ripetevo ogni singolo giorno che non avrei mollato. Così, nonostante non giocassi, questa voglia di migliorarmi mi spingeva ogni giorno in palestra con il desiderio di fare meglio. In definitiva, quindi, senza la mia forza mentale – chiamatela “testardaggine”, se preferite – non avrei combinato nulla di buono né a scuola né in campo».
Sei un modello di riferimento per i più giovani che giocano a basket: dai loro un consiglio su come comportarsi, per ottenere sempre il meglio sia in campo sia a scuola.
«Il consiglio è semplice: non lasciate che la scuola porti via del tempo al basket, perché se giocate a basket e amate il gioco così tanto come lo amo io, non permetterete alla scuola di togliere troppo tempo al basket. Allo stesso tempo, però, non togliete del tempo alla scuola per il basket. Come si fa? Cercate di togliere tutte le distrazioni che sono al di là del basket e della scuola, perché comunque io sono dell’idea che gli amici e le serate e tutte le distrazioni rimangono lì anche d’estate, quando la scuola è finita e il campionato pure. Quindi, il consiglio che posso dare, per come mi rivedo io ripensando agli anni delle giovanili e per come la sto vivendo ora, è dedicare tempo a basket, scuola e nient’altro, sacrificando qualche uscita con gli amici e riposandosi qualche ora in più. Per me è stato l’unico modo per avere sempre il basket e la scuola al centro della mia vita».
Perché hai scelto, dopo una stagione eccezionale in campo e a scuola, di continuare ancora in NCAA e non tentare la scalata alla NBA?
«Ho scelto di non rendermi eleggibile al draft, perché dal primo al secondo anno qui a Texas Tech sono cresciuto tantissimo e oggi mi sento un giocatore diverso e migliore. Sono perciò curioso di vedere come e quanto posso migliorare ancora, fra il secondo e il terzo anno. Io sono dell’idea che se in America ci vieni con l’idea di essere “in missione” e quindi non pensare ad altro che a migliorare sia nel basket sia nello studio, tu non possa fare altro che migliorare davvero. Quindi sono convinto che migliorerò ancora e poi, alla fine del terzo anno, vedremo a che livello sarò arrivato. Inoltre, tralasciando gli inizi a Pistoia, negli altri posti non sono mai restato più di due anni. Ho fatto un anno alla Stella Azzurra Roma, uno a Pistoia, due a Treviso e ora sono a due qui a Texas Tech. Quindi sono anche curioso di vedere come vivrò per il terzo anno nello stesso posto. Qui ci sono grandi aspettative, il giusto allenatore e il giusto programma che ti segue e ti circonda come una famiglia, per cui io penso che si possano fare altre grandi cose. Non vedo l’ora di ricominciare».
GIBA – Giocatori Italiani Basket Associati