Si chiama “Dual & Post Career” la nuova rubrica curata dalla GIBA, che darà voce a donne e uomini di basket che racconteranno la propria esperienza, con l’obiettivo di fornire al movimento e ai giocatori prima di tutti una serie di riflessioni utili sia a chi gioca a basket e parallelamente ha altri interessi, sia a chi gioca ma pensa anche a quando smetterà.
Apre la rubrica Riccardo Pittis, campionissimo del quale ricordiamo il palmarès.
Con le squadre di club, a livello nazionale ha vinto: 7 Scudetti (4 con Milano e 3 con Treviso), 6 Coppe Italia (1 con Milano e 5 con Treviso), 3 Supercoppe Italiane con Treviso.
Sempre con le squadre di club, a livello internazionale ha vinto: 1 Coppa Intercontinentale con Milano, 2 Coppe Campioni con Milano, 2 Coppe Korac con Milano, 1 Coppa d’Europa e 1 Coppa Saporta con Treviso.
Con l’Italia ha vinto la Medaglia d’Oro ai Giochi del Mediterraneo e 2 Medaglie d’Argento ai Campionati Europei.
Questa è la nostra intervista.
Riccardo, sei un campione con un palmares chilometrico, ma c’è una vittoria su tutte che ti è rimasta particolarmente nel cuore?
«Difficile sceglierne una in particolare, perché sono tutte belle le emozioni che provi quando vinci, che sia Coppa Campioni, Scudetto o altro. E, soprattutto, credo siano uniche: quindi tutte belle e piacevoli a prescindere. Comunque, dovendo proprio scegliere te ne dico 2: la Coppa Korac vinta con Milano nel 1993 – che fu anche, per quanto inconsapevolmente – il mio addio a Milano – e il primo Scudetto vinto a Treviso nel 1997. E tieni conto che sto escludendo tante emozioni…».
C’era un compagno di squadra che pensava già al proprio futuro, quando ancora giocava?
«Sinceramente, no. All’epoca non se ne parlava mai, diciamo che non era un tema all’ordine del giorno. L’unico che mi viene in mente però, adesso che mi fai questa domanda, è Vittorio Gallinari, perché giocava ma si era pure laureato alla Bocconi e questo significava che aveva già un’idea chiara sul proprio futuro, nonostante giocasse ad alto livello nella massima serie e in Europa. Per il resto, devo dirti che eravamo assorbiti al 100% dalla routine del nostro impegno professionistico».
Qual è il tuo percorso di studi?
«Ho un diploma in ragioneria. Poi mi sono iscritto a Giurisprudenza, ma ho lasciato perdere perché non era quello che volevo fare davvero».
Quando hai iniziato a organizzare il tuo futuro lavorativo, fuori dal campo?
«Nel 2001, quando ho aperto un ristorante. Poi, nel 2002, ne ho aperto un altro insieme a un socio. Poi, nel 2004, ho smesso di giocare e ho continuato a fare altro».
Com’è stato entrare nel settore della ristorazione?
«Iniziare senza conoscerne i meccanismi non è stata una buona idea, per questo poi ho cambiato strada. Col senno di poi, posso dirti che conoscere le attività che si intraprendono è fondamentale, per non commettere errori di valutazione. Io non nascondo che la mia vera strada dopo la carriera di giocatore l’ho trovata solo 10 anni dopo che ho smesso e dopo aver tentato in vari ambiti. E la mia strada non era quella della ristorazione».
Quando ti sei detto: “Questo è quello che voglio fare?”.
«Quando ho capito che c’era qualcosa che mi interessava così tanto da volerla approfondire e impararla bene, prima di applicarla. Diciamo che più che giri ho fatto errori… ed è stato l’unico modo per imparare tante cose. Io sono una persona che preferisce fare piuttosto che non fare e questo, inevitabilmente, ti espone a errori. Però poi ti fa trovare la strada giusta».
Quali talenti, abilità ed esperienze ti ha lasciato il mondo dello sport, che hai ritenuto utili e di conseguenza hai potuto sfruttare nel tuo lavoro fuori dal campo?
«Il mio lavoro attuale è basato sulla mia esperienza cestistica, quindi tutto quello che ho appreso nel mio percorso di atleta me lo sto portando dietro, perché sono i concetti che trasferisco alle persone con le quali lavoro. Gioco di squadra, gestione dello stress, cambiamento, flessibilità, leadership: sono tutti temi che ho affrontato a livello inconscio durante la mia carriera e che oggi – una volta portati a livello conscio e avendo acquisiti gli strumenti per poterli trattare – trasferisco a chi me lo chiede».
Dunque cosa fa, oggi, Riccardo Pittis?
«Il mental coach e lo speaker motivazionale per aziende e privati che vogliono migliorare le proprie performance e acquisire ciò che oggi si chiamano “soft skills”, per avere un approccio diverso sia nel lavoro sia negli altri ambiti della vita. Poi faccio il commentatore delle partite di basket in TV, che è soprattutto un modo per non abbandonare del tutto il mondo dal quale provengo».
Torniamo al passato. Con quale stato d’animo hai appeso le scarpe al chiodo e pensato al futuro lavorativo?
«Ho vissuto diversi stati d’animo. Il primo quasi euforico, nel senso che quando ho abbandonato sapevo che era arrivato il momento e l’euforia era dettata dal fatto che iniziavo ad avere una vita privata che fino a quel momento non avevo avuto. Banalità come week end a disposizione e vacanze di Natale, ad esempio, che io non sapevo neanche cosa fossero. Questo iniziale periodo è durato, diciamo, 6 mesi. Poi arriva il momento in cui ti chiedi: e adesso, cosa faccio? Perché fai fatica a riempire le tue giornate, che fino a quel momento erano state piene di una vita regolata da impegni precisi dovuti alla routine allenamento-riposo-allenamento-riposo-partita. Quindi, dopo una carriera schedulata e 6 mesi di euforia, inizi una specie di ricerca ansiosa, che è la cosa peggiore. Cerchi non tanto l’aspetto economico, quanto la gratificazione perché noi ex atleti siamo – uso un termine forte – “drogati” di adrenalina ed emozioni e per queste cose non esiste “il metadone” quando vengono a mancarti. Quindi già fai fatica a gestirti emotivamente, per cui quando subentra una emotività negativa la vita diventa ben più complicata di come la conosci e – parliamoci chiaro – vai in crisi».
E come si esce dalla crisi?
«Io l’ho imparato sulla mia pelle. E oggi posso dirti che se 15 anni fa avessi avuto già gli strumenti giusti – che nei miei corsi chiamo il “libretto delle istruzioni” – non avrei avuto quel decennio di ricerca della strada giusta, perché quasi sicuramente l’avrei trovata prima. Posso dirti che si esce dalla crisi prima di tutto capendo come siamo fatti, come pensiamo, come interpretiamo la vita e cosa ci piace fare davvero. E, ancora prima del cosa ci piace fare, perché ci piace fare quel qualcosa: il motivo. Insomma: una volta padroneggiato il nostro personalissimo “libretto delle istruzioni”, possiamo cominciare a dire: adesso so come funziono e cosa posso fare per lavorare e guadagnare, esprimendomi al meglio. Perché l’obiettivo “top” per ciascuno di noi è, ovviamente, fare qualcosa che ci faccia divertire e nel contempo guadagnare».
D’obbligo ora chiederti: come si fa a trovare il nostro “libretto delle istruzioni”?
«Direi che se lo fai da solo, senza sapere come fare, potresti metterci anni o non trovarlo affatto. Puoi invece trovarlo più facilmente se qualcuno ti da un punto di vista diverso dal tuo. Qualcuno che abbia gli strumenti per farti capire e non solo arrabbiare… perché se cerchi da solo e magari non trovi è pacifico che ti arrabbi. Nel mio caso, ho trovato il mio “libretto delle istruzioni” grazie a un mental coach. E grazie a questo mio percorso interiore ho capito come funzionavo e cosa mi sarebbe piaciuto fare, che è poi ciò che faccio oggi».
Se tu potessi tornare indietro, anche se con il senno di poi siamo tutti bravissimi, cosa vorresti cambiare del tuo percorso prima sportivo e poi lavorativo?
«Beh, dopo tutto quel che ti ho detto, direi che è naturale risponderti: avrei voluto avere prima il mio “libretto delle istruzioni”. Perciò, se potessi tornare indietro, farei prima quel percorso che mi ha permesso di capire tante cose di me e poi sceglierei la mia strada post carriera».
Quali sono i consigli che ti senti di dare ai giovani atleti, che iniziano la loro carriera da giocatori?
«Di esser giocatori al 100%, ma contestualmente saper guardare ciò che ci succede intorno. Essere curiosi e capire, chiedersi cosa gli piace oltre al basket, perché poi gli servirà. Insomma: ricordarsi della voglia che avevano di imparare quando erano ragazzini e si approcciavano al basket e conservare quella voglia anche per imparare qualcos’altro, che possa piacergli altrettanto».
E quali consigli daresti, invece, ai giocatori veterani che si avvicinano al ritiro?
«Di chiamarmi, che ne parliamo. Sicuramente posso dare una mano».
Riccardo Pittis, con Mike D’Antoni, ai tempi di Milano.
[Archivio personale Riccardo Pittis]
Riccardo Pittis, ai tempi di Treviso.
[Archivio personale Riccardo Pittis]
Riccardo Pittis, nelle vesti di commentatore delle partite di basket.
[Archivio personale Riccardo Pittis]
Riccardo Pittis, durante il suo lavoro di mental coach e speaker motivazionale.
[Archivio personale Riccardo Pittis]
GIBA – Giocatori Italiani Basket Associati